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Critica & Articolo


L'artista Yoko Okuyama

  Per dare un'idea di che cosa l'arte significhi per Yoko Okuyama possiamo rubare la definizione che il filosofo K.R. Popper dà della scienza: è un gioco senza fine. Per l'artista giapponese, infatti, la scoperta di nuove forme espressive è il risultato, mai definitivo, di una sperimentazione entusiasmante e sempre nuova, di un lavoro apassionato in chi là volontà dell'artista e l'azione dell'aqua-essenziale nella sua "pittura senza pennello" -si incontrano, dando vita a possibilità infinite di combinazioni che riescono a stupire l'artista stessa.

  Pittura leggera, che accoglie lo spazio, che articola l'assienza, che respira alla maniera orientale, che non s'accampa prepotante femminilmente suggerisce, delicatamente s'espande senza invadere, si lascia intridere di colore o gioca sulle valenze del bianco e del nero, di una texture che tanto lascia al vuoto. E tutto avviene senza il tocco sia pur minimo di pannello, in un incontro, che ha del magico, tra il pigmento e la materia prima, con l'ausilio essenziale dell'elemento liquido più semplice in natura: l'aqua.

  Elementari strumenti: cellulosa e rete a trama sottie utilizzata come setaccio, mutuati dalla tradizionale arte dei maestri artigiani della varta di riso, permettono a quest'artista dal passato di architetto di declinale, in piena libertà creativa, una sintesi nuova di cultura giapponese e stimoli ed intuizioni provenienti dall'ambito europeo. su quest'arte, sovrano, aleggia il "Ma" che in giapponese significa propriamente lo spazio vuoto, il tempo eterno, ma anche "L'instante", il taglio netto del tempo, l'attimo che ne interrompe il flusso.

  L'aqua agisce nella reti che l'artista ha preparato e disegna le sue variopinte ragnatele di cellulosa: di lì non si torna indietro, si può- compito faustiano dell'artista-fermele l'attimo, che diventa definitivo: istante di billezza ritagliato dalla continuà del tempo che fugge. Così l'artista riesce a strappare l'esito ultimo al caso, bloccando per sempre ciò che il calligrafico lavorí dell'aqua ha composto e intessuto coi fili di cellulosa - senza possibilità di tornare indietro, di cancellare ciò che l'elemento acquoreo ha compiuto - e che, se lasciato agire ancora, transformerebbe ulteriormente e ineluttabilmente.

  Lotta eterna dell'artista contro il caso, sfida gioiosa tra la creatività d'artista e il fluire di un elemento naturale che fa il suo corsa senza ripensamenti, secondo la legge eraclitea del "panta rei;(tutto scorre)".Una sfida che porta Yoko Okuyama a non fermarsi alla trama bidimensionale, ma a trasferire la levità di questa pittura, che sa di ruscello e di fiume come la poesia tipicamente giapposnese degli Haiku, anche all'elemento tridimensionale, alle sue sculture, che nella leggerezza del materiale e nell'allusiva forma ovoidale richiamano l'idea dell'origine, dello spazio curvo, del tempo che si fa spazio. E, d'altro canto, anche l'astratta tessitura delle sue fragili e preziose ragnatele approda - come è possibile cogliere nelle ultime creazioni- ad una suggestione figurativa,tanto piú ammaliante quanto piú capace di suggerire piuttosto che descrivere.

Elisabetta Bovo
critico d'arte
gionalista
docente di Iconologia ed
Ermeneutica dell'immagine